Immobiliare: la pandemia cambia il volto della ristorazione milanese a cominciare dagli chef di grido
- di RED-ROM
- in Economia
(PRIMAPRESS) - MILANO - “L’Oste” siciliano Filippo La Mantia chiude il suo ristorante di Piazza Risorgimento a Milano entro la fine dell’anno. Il motivo? Gli incassi ridotti a causa della pandemia e il fitto del locale troppo alto: 28 mila euro al mese, insostenibili per uno scenario nettamente cambiato.
Quello del cuoco e imprenditore siciliano è un caso molto significativo di come stia cambiando la ristorazione nella piazza milanese. Tra smart working, crollo del turismo internazionale, rinvio o cancellazione degli eventi e delle fiere (anche se proprio questo mese ripartiranno alcune manifestazioni della moda), il brodo si è ristretto e per i ristoratori è sempre più complicato coprire le spese fisse, perché i costi sono quasi gli stessi. Il risparmio più consistente ha riguardato la manodopera, attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali, ma gli affitti restano una voce molto pesante in termini di incidenza. Anche perché oggi i ristoranti dispongono di una superficie utile inferiore, in quanto il rispetto del distanziamento sociale ha imposto una riduzione del numero dei coperti, con tutto quel che ne deriva. E se d’estate molti ristoranti hanno potuto utilizzare gli spazi esterni per compensare il calo dell’occupazione interna, l’arrivo dell’autunno-inverno pone seri interrogativi a chi fa ristorazione, soprattutto in termini di sostenibilità economica.
In una ricerca condotta da Engel & Völkers Commercial e pubblicata a maggio, ha rilevato che la tendenza a Milano è di un ridimensionamento degli spazi dedicati alla ristorazione, soprattutto in centro storico, e di una trasformazione in chiave delivery. Per la ristorazione di livello più alto, data la struttura dei costi, è piuttosto difficile trovare la quadra. Non sono mancate le uscite di scena, da quella di Felix Lo Basso per la scadenza del contratto (non rinnovato) del ristorante in Duomo a quella di Luigi Taglienti per mancata riapertura del Lume in via Watt. - (PRIMAPRESS)
Quello del cuoco e imprenditore siciliano è un caso molto significativo di come stia cambiando la ristorazione nella piazza milanese. Tra smart working, crollo del turismo internazionale, rinvio o cancellazione degli eventi e delle fiere (anche se proprio questo mese ripartiranno alcune manifestazioni della moda), il brodo si è ristretto e per i ristoratori è sempre più complicato coprire le spese fisse, perché i costi sono quasi gli stessi. Il risparmio più consistente ha riguardato la manodopera, attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali, ma gli affitti restano una voce molto pesante in termini di incidenza. Anche perché oggi i ristoranti dispongono di una superficie utile inferiore, in quanto il rispetto del distanziamento sociale ha imposto una riduzione del numero dei coperti, con tutto quel che ne deriva. E se d’estate molti ristoranti hanno potuto utilizzare gli spazi esterni per compensare il calo dell’occupazione interna, l’arrivo dell’autunno-inverno pone seri interrogativi a chi fa ristorazione, soprattutto in termini di sostenibilità economica.
In una ricerca condotta da Engel & Völkers Commercial e pubblicata a maggio, ha rilevato che la tendenza a Milano è di un ridimensionamento degli spazi dedicati alla ristorazione, soprattutto in centro storico, e di una trasformazione in chiave delivery. Per la ristorazione di livello più alto, data la struttura dei costi, è piuttosto difficile trovare la quadra. Non sono mancate le uscite di scena, da quella di Felix Lo Basso per la scadenza del contratto (non rinnovato) del ristorante in Duomo a quella di Luigi Taglienti per mancata riapertura del Lume in via Watt. - (PRIMAPRESS)