ANVGD ricorda il Trattato di Osimo e le sue conseguenze
- di RED COM
- in Consumatori
(PRIMAPRESS) - OSIMO - Ricorre martedì 10 novembre il quarantennale del Trattato di Osimo, poi perfezionato dall’accordo di Roma del 18 febbraio 1983: in quest’ultima occasione si quantificò l’entità del risarcimento che la Jugoslavia doveva all’Italia con riferimento ai beni immobili degli esuli istriani provenienti dalla Zona B del mai costituito Territorio Libero di Trieste, sul quale si era esercitato il Governo Militare jugoslavo (di fatto una vera e propria annessione anticipata) nel periodo compreso tra il Trattato di Pace del 1947 ed il memorandum di Londra del 1954. Stabilita la cifra forfettaria di 110 milioni di dollari (con lo scandalo dei 21 centesimi di dollaro per metro quadrato di proprietà!), il pagamento sarebbe stato effettuato a rate annuali dal governo di Belgrado a partire dal primo gennaio 1990, sino all’implosione della Repubblica Socialista Federativa, dopodiché tale onere è ricaduto su Slovenia e Croazia in guisa di Stati successori.
Rarefatte sono le informazioni che da qui in avanti si conoscono: Lubiana si accollò il 60% e parrebbe aver versato a rate 56 milioni di dollari su un conto corrente lussemburghese, dal quale l’Italia non ha ancora prelevato nulla (avendo chiesto un ricalcolo sulla base delle normative entrate in vigore a beneficio dei cittadini sloveni e croati analogamente espropriati dal regime), laddove Zagabria non ha saldato alcunché del 40% di sua competenza e l’attuale fase di crisi economica dovuta alle politiche attuate per rientrare nei parametri europei non lascia presagire nulla di buono in tempi brevi.
Nel novembre del 1975 la comunità degli Esuli e la città di Trieste vissero con rabbia e disperazione la ratifica di un Trattato che non solo poneva fine a qualsiasi rivendicazione territoriale nei confronti della ex Zona B, storico e naturale retroterra triestino, ma anche dal punto di vista economico si dimostrava inaccettabile, lasciando irrisolti vari punti interrogativi. Perché l’Italia non capì che, morto Tito, la Jugoslavia sarebbe implosa o comunque diventata un interlocutore più malleabile? Come mai si risolse la questione bilateralmente e non si cercò di portare la questione a livello CEE, organismo nel quale l’Italia esercitava ancora un ruolo di primo piano? Quali interessi si muovevano dietro la paventata Zona Franca Industriale che avrebbe dovuto gravitare sul capoluogo giuliano?
Pochi mesi or sono la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, il più alto grado possibile di ricorso, ha rigettato (senza fornire motivazioni!) e nell’indifferenza generale l’istanza degli Esuli che chiedeva l’interessamento delle istituzioni europee riguardo l’annosa questione del risarcimento dei beni abbandonati. Possiamo dissertare in merito alla terzietà del giudice Trajkovska (macedone, ma nata e cresciuta nella Jugoslavia di Tito), tuttavia preferiamo denunciare le disparità che provengono dall’Italia, la quale ha risarcito equamente ed integralmente i connazionali rimpatriati dalle colonie nel dopoguerra, laddove i beni abbandonati di fiumani, dalmati e istriani non residenti nella Zona B del TLT sono serviti a pagare il debito di guerra nei confronti di Belgrado e non sono ancora stati indennizzati. A conferma di ciò, infatti, abbiamo una giurisprudenza nazionale che costantemente in questo cinquantennio si è prodigata più nel bastonare gli Esuli che nel sentire le loro legittime voci.
Inutile sottolineare come, nei tempi di crisi che attraversiamo ed in nome di un patto di stabilità da rispettare, temiamo fortemente per la sorte degli accordi economici di Osimo. La classe dirigente della Prima Repubblica e buona parte di quella della Seconda era consapevole dell’Ostpolitik e del debito morale contratto con gli Esuli, le cui legittime rivendicazioni erano state sacrificate per consolidare il buon vicinato con la Jugoslavia. Chi oggi siede nelle istituzioni sovente conosce solo per sentito dire tali problematiche ed è maggiormente preoccupato di attenersi ai diktat finanziari che giungono dalla cosiddetta Troika, sicché il “tesoretto” lussemburghese potrebbe ingolosire chi deve far quadrare i conti e non possiede il peso diplomatico necessario a svolgere un’azione di lobby internazionale finalizzata a vedersi riconoscere legittimi diritti sinora calpestati.
Temiamo perciò che, a fronte di un simbolico versamento una tantum a beneficio di qualche amministrazione locale compiacente, che poi promuova una realizzazione estemporanea pro domo sua, il grosso di tale capitale venga invece assorbito dalla voragine del debito pubblico.
È fondamentale ribadire, non tutti lo ricordano con chiarezza, che non vi è alcun obbligo giuridico per cui i soldi di quei trattati internazionali debbano venire versati agli Esuli, essendo un rapporto intercorrente tra due Ordinamenti. Nulla, quindi, osterebbe al Governo italiano nel recuperare quei fondi e gestirli in maniera totalmente autonoma e svincolata, se non – per l’appunto – un ormai flebile debito morale.
L’istituzione di una Fondazione avrebbe proprio la finalità di raccogliere le diverse e diversificate anime del mondo degli esuli istriani, fiumani e dalmati in una struttura dotata della giusta e necessaria personalità giuridica per compiere un salto di qualità in quattro passaggi:
1. fare in modo che lo Stato incassi il dovuto;
2. promulgare, ancor prima dell’incasso, una norma che preveda il trasferimento dei fondi di Osimo ad un soggetto giuridico creato secondo le linee normative già in vigore per le fondazioni bancarie;
3. dare libera scelta ad ogni singolo avente diritto ex cittadino della ex Zona B di acquisire quanto previsto per legge oppure di lasciare la propria quota in dotazione ad una tale fondazione;
4. fare in modo che una simile Fondazione versi in un fondo vincolato, cioè intoccabile ed inerodibile, i corrispettivi resi disponibili ed utilizzare i proventi finanziari e solo quelli (cioè gli interessi) per progettare e realizzare opere a tutela della nostra storia e della nostra identità.
Nella governance della stessa, inoltre, potranno trovare spazio sia rappresentanti del mondo degli Esuli quanto delle Istituzioni, cercando la massima collaborazione e trasparenza. Siffatta Fondazione, in una fase storica in cui lo Stato chiude consolati e istituti di cultura italiana all’estero, ridimensiona le ambasciate e concentra la sua azione diplomatica altrove rispetto ai Balcani, potrebbe assurgere a osservatorio privilegiato delle dinamiche d’oltre Adriatico. La conoscenza della complessa vicenda di quelle terre da cui il 90% degli italiani è stato sradicato al termine della Seconda guerra mondiale, l’armonia in via di perfezionamento con la comunità dei “rimasti”, il crescente interesse degli esuli di terza e ormai quarta generazione a riappropriarsi della propria identità e la voglia di conoscere una pagina di storia dimenticata che riscontriamo sempre di più in occasione del Giorno del Ricordo nelle scuole e nelle città di tutta Italia in cui ci rechiamo per diffondere storia e testimonianza: ecco il patrimonio ideale e culturale che tale Fondazione potrebbe mettere in campo.
Tertium non datur: o lo Stato incassa i soldi e sbeffeggia, una volta ancora, gli Esuli, impotenti; o ci si attrezza, cercando di limitare i danni e trovare la miglior soluzione possibile, ad ormai settant’anni di distanza dagli infausti avvenimenti.
Su queste basi l’italianità dell’Adriatico orientale potrà rifiorire, da siffatti presupposti la penetrazione culturale ma anche imprenditoriale italiana nelle terre dell’Adriatico orientale troverà interlocutori e collaboratori con i quali sviluppare progettualità e sotto tali auspici, portati avanti da persone che credono in questa causa e non da uno Stato che troppo spesso ha trascurato le nostre legittime istanze, il Ritorno potrà concretizzarsi. - (PRIMAPRESS)
Rarefatte sono le informazioni che da qui in avanti si conoscono: Lubiana si accollò il 60% e parrebbe aver versato a rate 56 milioni di dollari su un conto corrente lussemburghese, dal quale l’Italia non ha ancora prelevato nulla (avendo chiesto un ricalcolo sulla base delle normative entrate in vigore a beneficio dei cittadini sloveni e croati analogamente espropriati dal regime), laddove Zagabria non ha saldato alcunché del 40% di sua competenza e l’attuale fase di crisi economica dovuta alle politiche attuate per rientrare nei parametri europei non lascia presagire nulla di buono in tempi brevi.
Nel novembre del 1975 la comunità degli Esuli e la città di Trieste vissero con rabbia e disperazione la ratifica di un Trattato che non solo poneva fine a qualsiasi rivendicazione territoriale nei confronti della ex Zona B, storico e naturale retroterra triestino, ma anche dal punto di vista economico si dimostrava inaccettabile, lasciando irrisolti vari punti interrogativi. Perché l’Italia non capì che, morto Tito, la Jugoslavia sarebbe implosa o comunque diventata un interlocutore più malleabile? Come mai si risolse la questione bilateralmente e non si cercò di portare la questione a livello CEE, organismo nel quale l’Italia esercitava ancora un ruolo di primo piano? Quali interessi si muovevano dietro la paventata Zona Franca Industriale che avrebbe dovuto gravitare sul capoluogo giuliano?
Pochi mesi or sono la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, il più alto grado possibile di ricorso, ha rigettato (senza fornire motivazioni!) e nell’indifferenza generale l’istanza degli Esuli che chiedeva l’interessamento delle istituzioni europee riguardo l’annosa questione del risarcimento dei beni abbandonati. Possiamo dissertare in merito alla terzietà del giudice Trajkovska (macedone, ma nata e cresciuta nella Jugoslavia di Tito), tuttavia preferiamo denunciare le disparità che provengono dall’Italia, la quale ha risarcito equamente ed integralmente i connazionali rimpatriati dalle colonie nel dopoguerra, laddove i beni abbandonati di fiumani, dalmati e istriani non residenti nella Zona B del TLT sono serviti a pagare il debito di guerra nei confronti di Belgrado e non sono ancora stati indennizzati. A conferma di ciò, infatti, abbiamo una giurisprudenza nazionale che costantemente in questo cinquantennio si è prodigata più nel bastonare gli Esuli che nel sentire le loro legittime voci.
Inutile sottolineare come, nei tempi di crisi che attraversiamo ed in nome di un patto di stabilità da rispettare, temiamo fortemente per la sorte degli accordi economici di Osimo. La classe dirigente della Prima Repubblica e buona parte di quella della Seconda era consapevole dell’Ostpolitik e del debito morale contratto con gli Esuli, le cui legittime rivendicazioni erano state sacrificate per consolidare il buon vicinato con la Jugoslavia. Chi oggi siede nelle istituzioni sovente conosce solo per sentito dire tali problematiche ed è maggiormente preoccupato di attenersi ai diktat finanziari che giungono dalla cosiddetta Troika, sicché il “tesoretto” lussemburghese potrebbe ingolosire chi deve far quadrare i conti e non possiede il peso diplomatico necessario a svolgere un’azione di lobby internazionale finalizzata a vedersi riconoscere legittimi diritti sinora calpestati.
Temiamo perciò che, a fronte di un simbolico versamento una tantum a beneficio di qualche amministrazione locale compiacente, che poi promuova una realizzazione estemporanea pro domo sua, il grosso di tale capitale venga invece assorbito dalla voragine del debito pubblico.
È fondamentale ribadire, non tutti lo ricordano con chiarezza, che non vi è alcun obbligo giuridico per cui i soldi di quei trattati internazionali debbano venire versati agli Esuli, essendo un rapporto intercorrente tra due Ordinamenti. Nulla, quindi, osterebbe al Governo italiano nel recuperare quei fondi e gestirli in maniera totalmente autonoma e svincolata, se non – per l’appunto – un ormai flebile debito morale.
L’istituzione di una Fondazione avrebbe proprio la finalità di raccogliere le diverse e diversificate anime del mondo degli esuli istriani, fiumani e dalmati in una struttura dotata della giusta e necessaria personalità giuridica per compiere un salto di qualità in quattro passaggi:
1. fare in modo che lo Stato incassi il dovuto;
2. promulgare, ancor prima dell’incasso, una norma che preveda il trasferimento dei fondi di Osimo ad un soggetto giuridico creato secondo le linee normative già in vigore per le fondazioni bancarie;
3. dare libera scelta ad ogni singolo avente diritto ex cittadino della ex Zona B di acquisire quanto previsto per legge oppure di lasciare la propria quota in dotazione ad una tale fondazione;
4. fare in modo che una simile Fondazione versi in un fondo vincolato, cioè intoccabile ed inerodibile, i corrispettivi resi disponibili ed utilizzare i proventi finanziari e solo quelli (cioè gli interessi) per progettare e realizzare opere a tutela della nostra storia e della nostra identità.
Nella governance della stessa, inoltre, potranno trovare spazio sia rappresentanti del mondo degli Esuli quanto delle Istituzioni, cercando la massima collaborazione e trasparenza. Siffatta Fondazione, in una fase storica in cui lo Stato chiude consolati e istituti di cultura italiana all’estero, ridimensiona le ambasciate e concentra la sua azione diplomatica altrove rispetto ai Balcani, potrebbe assurgere a osservatorio privilegiato delle dinamiche d’oltre Adriatico. La conoscenza della complessa vicenda di quelle terre da cui il 90% degli italiani è stato sradicato al termine della Seconda guerra mondiale, l’armonia in via di perfezionamento con la comunità dei “rimasti”, il crescente interesse degli esuli di terza e ormai quarta generazione a riappropriarsi della propria identità e la voglia di conoscere una pagina di storia dimenticata che riscontriamo sempre di più in occasione del Giorno del Ricordo nelle scuole e nelle città di tutta Italia in cui ci rechiamo per diffondere storia e testimonianza: ecco il patrimonio ideale e culturale che tale Fondazione potrebbe mettere in campo.
Tertium non datur: o lo Stato incassa i soldi e sbeffeggia, una volta ancora, gli Esuli, impotenti; o ci si attrezza, cercando di limitare i danni e trovare la miglior soluzione possibile, ad ormai settant’anni di distanza dagli infausti avvenimenti.
Su queste basi l’italianità dell’Adriatico orientale potrà rifiorire, da siffatti presupposti la penetrazione culturale ma anche imprenditoriale italiana nelle terre dell’Adriatico orientale troverà interlocutori e collaboratori con i quali sviluppare progettualità e sotto tali auspici, portati avanti da persone che credono in questa causa e non da uno Stato che troppo spesso ha trascurato le nostre legittime istanze, il Ritorno potrà concretizzarsi. - (PRIMAPRESS)